I numeri parlano chiaro: chi investe in ricerca e innovazione resiste alle crisi
Le aziende che usciranno meglio dall’emergenza Covid-19 sono quelle che hanno puntato sulla valorizzazione delle risorse, sull’innovazione, sulla digitalizzazione e sulla diversificazione del prodotto. Lo rileva l’Istat sulla base dei dati del Censimento permanente sulle imprese: numeri che identificano i profili virtuosi delle aziende che hanno tenuto alla doppia crisi del 2008 e del 2013.
Quello che viene definito “dinamismo accessibile” deve essere il punto di riferimento per strategie di policy mirate, anche perché ha “consentito anche a migliaia di piccole imprese di registrare una significativa crescita del fatturato, del valore aggiunto e della produttività”.
Se si guarda al triennio 2016-2018, infatti, se ne ricava che la produttività del lavoro cresce solo a partire da profili d’impresa (anche di piccole dimensioni) che hanno introdotto, nell’ordine: innovazione, investimenti in tecnologia e digitalizzazione, elementi di modernizzazione tecnologica della propria attività, attenzione agli aspetti di sostenibilità, investimenti in formazione ICT del personale, investimenti in capitale umano e formazione, investimenti in macchinari per l’innovazione.
Questa analisi preziosa è stata fornita dal Direttore del Dipartimento per la produzione statistica dell’Istat Roberto Monducci, in audizione di fronte alle Commissioni Bilancio riunite di Camera e Senato sull’esame del Programma Nazionale di Riforma (PNR).5
Serve investire in Ricerca & Sviluppo
Un aspetto interessante riguarda la destinazione degli investimenti delle aziende italiane negli ultimi anni: la spesa si è ricomposta a favore di macchinari e attrezzature, a differenza di quanto accaduto negli altri Paesi europei. Altrove infatti si è puntato di più sulla proprietà intellettuale (tra cui Ricerca & Sviluppo e software) che, sottolinea l’Istat, “risultano maggiormente legati agli aumenti di produttività”.
Anche gli investimenti pubblici sono diminuiti negli anni: dal 2008 al 2019 la quota sul Pil è scesa di circa un punto percentuale (rispettivamente da 3,2% a 2,3%), attestandosi su un livello significativamente inferiore di quello dell’area euro (2,8%). Sfruttando il suo modello macroeconomico, l’Istat ha potuto quantificare gli effetti delle misure che (come indicato anche nel PNR) aumenterebbero gli investimenti pubblici in R&S. Se ne ricava che aumentare gli investimenti pubblici in Ricerca & Sviluppo significa stimolare il miglioramento degli investimenti privati in software e R&S. Ma non solo: “l’aumento di spesa pubblica avrebbe un impatto positivo sullo stock di capitale con effetti anche dal lato dell’offerta”.
Per rendere l’idea, l’Istat ipotizza un aumento degli investimenti pubblici in R&S di 1 miliardo: si avrebbe così un effetto permanente sul totale degli investimenti, sul Pil e sul mercato del lavoro.
A rischio più di un’impresa su tre
L’audizione dell’Istat è stata anche l’occasione per rimarcare le difficoltà in cui versano le imprese italiane, con il 38,8% di esse che denuncia “l’esistenza di fattori economici e organizzativi che ne mettono a rischio la sopravvivenza nel corso dell’anno”.
Uno dei problemi principali, come è noto, è la crisi di liquidità che ha colpito le aziende. A fine lockdown si è stimato che oltre un terzo delle società non avrebbe avuto le risorse necessarie per operare fino a fine 2020.
Di fronte a questa situazione critica sono dovute cambiare le scelte di finanziamento dell’80% delle imprese italiane, con tre tendenze:
- orientamento al sistema bancario da parte delle imprese che prima della crisi si basavano sul solo autofinanziamento
- aumentato ricorso al capitale di terzi non bancario, specialmente da parte delle imprese dei servizi
- articolazione del ventaglio di fonti di finanziamento non “sofisticato” (credito commerciale, leasing/factoring) a cui si rivolgono soprattutto imprese che segnalano vincoli di liquidità
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